Oggi l’uomo sa di non essere al centro, ma solo ai margini di una galassia tra le molte che occupano uno spazio smisurato. L’etica del viandante avvia a pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora.
«Questa avventura è il lavoro di una vita. Il filosofo fronteggia il vissuto e il governo dell’incertezza.»
L’età della tecnica ha posto fine sia all’incanto del mondo tipico dell’antichità, sia al suo disincanto tipico della modernità, perché sia l’una sia l’altra ancora esprimevano i tratti dell’uomo che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L’età della tecnica ha abolito questo scenario “umanistico”, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande. La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. L’etica, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo della tecnica regolato dal fare come pura produzione di risultati. Se la tecnica non ci consente di pensare la storia iscritta in un fine, l’unica etica possibile è quella che si fa carico della pura processualità, che, come il percorso del viandante, non ha in vista una meta. Consegnato al nomadismo, il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Anche questi scenari si sono fatti instabili, non più mete dell’intenzione o dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso il viandante senza una meta, perché è il paesaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo, accoglierlo nell’assenza spaesante del suo senza-confine. Camminando senza una meta all’orizzonte per non perdere le fi gure del paesaggio, il viandante scopre il vuoto della legge e il sonno della politica che ancora non ha scoperto che tutti gli uomini sono uomini di frontiera. Non si legga il nomadismo del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiutano il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora il nomadismo del viandante ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l’apertura che chiede sfiora l’abisso dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare.