Fino ad allora Hajime aveva vissuto in un universo abitato solo da lui: figlio unico quando, nel Giappone degli anni Cinquanta, era rarissimo non avere fratelli o sorelle, aveva fatto della propria eccezionalità una fortezza in cui nascondersi, un modo per zittire quella sensazione costante di non essere mai li dove si vorrebbe veramente. Invece un giorno scopre che la solitudine è solo un'abitudine, non un destino: lo capisce quando, a dodici anni, stringe la mano di Shimamoto, una compagna di classe sola quanto lui, forse di più: a distinguerla non c'è solo la condizione di figlia unica, ma anche il suo incedere zoppicante, come se in quel passo faticoso e incerto ci fosse tutta la sua difficoltà a essere una creatura di questo mondo. Quando capisci che non sei destinato alla solitudine, che il tuo posto nel mondo è solo là dove è lei, capisci anche un'altra cosa: che sei innamorato. Ma Hajime se ne rende conto troppo tardi - è uno di quegli insegnamenti che si imparano solo con l'esperienza - quando ormai la vita l'ha separato da lei. Come il dolore di un arto fantasma, come una leggera zoppia esistenziale, Hajime diventerà uomo e accumulerà amori, esperienze, dolori, errori, ma sempre con la consapevolezza che la vita, la vita vera, non è quella che sta dissipando, ma quell'altra, quella che sarebbe potuta essere con Shimamoto, quella in un altrove indefinito, a sud del confine, a ovest del sole. Una vita che forse, venticinque anni dopo, quando lei riappare dal nulla, diventerà realtà.
La recensione di VENPRED
Nascere la prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo era stata davvero una strana coincidenza. Per questo motivo i genitori avevano deciso di chiamarlo Hajime, letteralmente “inizio”. La vita di Hajime sarebbe stata simile a quella di qualsiasi altro bambino della sua età se anche lui avesse avuto dei fratelli. Essere figli unici nel Giappone dell’immediato dopoguerra era considerato un fatto insolito e molto spesso era motivo di esclusione, per questo Hajime non poteva fare a meno di avvertire un profondo senso di inadeguatezza, sentiva di essere mancante e incompleto rispetto ai suoi compagni e ciò acuiva il suo senso di solitudine. L’unica persona con cui riusciva a condividere la sua eccezionalità era Shimamoto, una bambina da poco trasferitasi nella sua scuola e anche lei figlia unica. Shimamoto era gentile e rispettata da tutti, ma aveva un difetto alla gamba che la rendeva leggermente claudicante, proprio per questo il maestro aveva affidato a lui il compito di prendersene cura. Fra loro si era subito creata un’intesa reciproca e il fatto di essere entrambi figli unici li aveva uniti moltissimo: i pomeriggi trascorsi a parlare e ascoltare musica volavano via come il vento e il tempo per stare insieme non era mai abbastanza. Così, Pretend you are happy when you are blue it isn’t very hard to do (Fingere di essere felici quando si è tristi non è poi un grande sforzo) come cantava Nat King Cole, mano nella mano con Shimamoto sembrava davvero possibile. Tuttavia la vita insegna che se non si è abbastanza determinati le circostanze possono risultare fatali, e così era accaduto anche ad Hajime e Shimamoto. Finite le elementari avevano preso strade differenti e avevano finito per perdersi di vista. Hajime si era iscritto al liceo e lì aveva conosciuto la sua prima ragazza; una volta terminate le scuole superiori si era trasferito a Tokyo per frequentare l’università e lì aveva partecipato alle manifestazioni studentesche. Dopo la laurea aveva lavorato in una casa editrice, fino a quando a trent’anni aveva conosciuto sua moglie, si era sposato ed era diventato padre di due bambine; grazie al sostegno economico di suo suocero poi era riuscito ad avviare un’attività redditizia della quale era molto contento. Era felice, eppure sentiva di non essere veramente se stesso: a guardarla da fuori, aveva l’impressione che quella non fosse effettivamente la sua vita, quanto piuttosto l’esistenza che qualcun’altro aveva preparato per lui. In tutti quegli anni Hajime aveva accumulato esperienze: aveva amato, sofferto e fatto soffrire, aveva sbagliato e cercato di imparare dai propri errori, ma il ricordo di Shimamoto e della felicità piena che aveva provato con lei non lo avevano mai abbandonato. A distanza di tanto tempo continuava ad essere pervaso da una sensazione di vuoto e di nostalgia per ciò che aveva perso: il pensiero dell’esistenza che avrebbe potuto vivere con Shimamoto e che si era lasciato sfuggire si era trasformato in un dolore sottile ma profondo. Tutto ha un inizio, un centro e una fine, l’esistenza di ciascuno di noi è destinata a seguire inesorabilmente questa parabola. Ce lo ripetono da sempre gli storici, i filosofi e, a partire da una certa data, anche i romanzieri. A ben guardare anche Murakami in A sud del confine, a ovest del sole si serve dello spazio del romanzo per tratteggiare l’arco temporale di un’esistenza - quella di Hajime - scandita metaforicamente da questi tre momenti. Eppure lo scrittore giapponese va oltre, e sembra dirci che, indipendentemente dalla possibilità che l’inizio e la fine possano ricongiungersi, ciò che davvero conta è il centro, lo spazio di tensione/estensione massima che la vita raggiunge e l’accumulo di esperienze che permette a ciascuno di riconfigurare la propria esistenza e attribuirgli un significato diverso, nuovo, finalmente maturo. È solo così - vivendo il centro - che quando venticinque anni dopo la vita concederà loro la possibilità di rincontrarsi Hajime e Shimamoto potranno ricongiungersi. Ripubblicato con una traduzione completamente rivista, A sud del confine, a ovest del sole è un romanzo intenso, delicato, realista al punto da risultare talvolta tagliente, malinconico e puro, ma proprio per questo di una bellezza che non può essere ignorata.